Domanda:
Raga domani devo fare un tema!!AIUTOOOOOO!!!!!?
roby
2007-10-17 06:58:10 UTC
ci dovrebbe essere anche una traccia di attualità...qualcuno puo scrivermi qualche argomento di cui parlare???SARESTE GRANDI SE (se ne avete) COLLEGAMENTI A SITI CHE NE PARLANO DI DETERMINATI ARGOMENTI........THANKKKKKKK!!!!
Tre risposte:
@Sandy@
2007-10-17 07:03:27 UTC
MI MERITO UNA SUPER VOTAZIONE... LAVORO PER TE!



La scuola



La questione della scuola non riguarda soltanto il popoloso universo di studenti, insegnanti e politici, ma riguarda l'intera comunità nazionale. Prendersi cura di istituti, licei e università e dei loro problemi è interesse di ogni cittadino che abbia a cuore le sorti della propria nazione.



In questi ultimi anni il mondo dell'istruzione è al centro di un intenso dibattito circa una sua possibile riforma. I governi che si sono succeduti, pur presentando progetti contraddittori, sono d'accordo su un punto: che la scuola così com'è non va bene, che deve essere cambiata per rispondere più adeguatamente ai mutamenti repentini della società.



Esiste uno scollamento sempre più marcato fra preparazione scolastica ed esigenze delle aziende e soprattutto fra le aspirazioni lavorative degli studenti una volta concluso il proprio ciclo di studi e le offerte del mondo del lavoro.



Esistono intere regioni italiane, alcune protagoniste di un rapido e brillante sviluppo economico, che manifestano la propria disaffezione verso l'organizzazione odierna degli studi, registrando cifre record di abbandoni ed evasioni dall'obbligo scolastico.



Il numero di laureati e diplomati, in Italia, risulta essere inferiore alla media dei Paesi economicamente più sviluppati.



Si lamenta da più parti, infine, un presunto declino della qualità dell'apprendimento.



Il problema di un cambiamento nel mondo della scuola, va detto, non è avvertito soltanto in Italia, ma è al centro di un dibattito politico e culturale in pressoché tutti gli stati più evoluti, USA in testa.



E l'impressione è quella che nessuno abbia soluzioni pronte e infallibili, che nessuno sia sufficientemente sicuro di avere in tasca un modello di scuola e di educazione perfettamente aderente a quelle che sono le esigenze di un mondo in cui le trasformazioni si fanno ogni giorno più incalzanti.



Intanto, molti sono dell'avviso sia necessario da un lato elevare l'obbligo scolastico ai 16-18 anni, dall'altro abbassare l'età in cui lo studente si diploma e si laurea.



Forse, sentito il parere degli psicologi esperti di età evolutiva, sarebbe già possibile anticipare l'ingresso dei bambini nel canonico iter scolastico a 5 anni. Ciò permetterebbe di guadagnare un anno. Il provvedimento sarebbe ampiamente giustificato dal fatto che i bambini di oggi sembrano molto più "evoluti" dei bambini di qualche generazione fa. La televisione, i giornali, gli stimoli culturali molto più vivaci cui vengono esposti, i modelli educativi familiari più orientati all'apprendimento, ne fanno degli infanti che entrano in prima elementare sapendo di frequente già leggere e scrivere e con un bagaglio "culturale" ben più attrezzato di quello dei coetanei di qualche decennio fa.



Il nucleo centrale della questione scolastica verte, tuttavia, sui contenuti da trasmettere. E' qui che si assiste allo scontro più duro fra scuole di pensiero diverse, fra "apocalittici" che vorrebbero un ritorno all'antico con la trasmissione di saperi "forti" e gli integrati che auspicano una scuola "più leggera", aperta a nuovi saperi e ai mutati stili di vita del mondo contemporaneo.



Naturalmente, fra i due opposti, esiste una miriade di posizioni più sfumate.



Personalmente, ritengo che la scuola dovrebbe, per forza di cose, alleggerire i contenuti e rendersi più aperta al nuovo, mantenendo tuttavia un nucleo forte di nozioni e discipline, non immediatamente utilizzabili nel mondo del lavoro, ma necessarie alla formazione culturale dell'individuo.



Secondo me la scuola deve sì preoccuparsi di preparare lo studente a un suo futuro inserimento nel mondo del lavoro, ma non ritengo sia questo il suo compito principale: la sua missione precipua, secondo me, detto anche in termini aziendali, è quella di formare cittadini dotati degli strumenti culturali idonei a capire (ed, eventualmente, criticare) il mondo moderno.



Il completamento della preparazione professionale può benissimo essere trasferita alle aziende stesse, con brevi corsi ad hoc, che si innestino su una acquisita e forte preparazione di base scolastica, o a corsi specialistici post-diploma (o post-laurea).



I programmi scolastici vanno necessariamente sfoltiti; è meglio concentrarsi su pochi concetti, ma approfonditi, che coltivare l'idea di fare dello studente un erudito dalle nozioni enciclopediche.



Va superato il pregiudizio idealistico che la scuola debba fornire contenuti adatti esclusivamente alla classe dirigente e al lavoro cosiddetto intellettuale.



La scuola dovrebbe manifestare una maggiore attenzione per il mondo del lavoro e delle professioni, dovrebbe curare la formazione professionale, quello che una volta era considerato il lavoro manuale, termine ormai obsoleto: nella società postindustriale la quasi totalità dei lavori esige una preparazione teorica e intellettuale e delle nozioni di tutto rispetto. I precedenti, storici, grandi successi dell'Italia nell'artigianato dovrebbero stimolare un orientamento più convinto in questa direzione.



Anche l'idea della scuola-azienda non mi lascia scontento. Stabilire degli obiettivi educativi e formativi precisi, verificare i risultati, mettere le scuole in competizione, dare maggiore potere agli studenti e ai loro genitori, senza arrivare all'eccesso di trasformare lo studente in un tirannico cliente a tutti gli effetti e senza privare l'insegnante dei necessari strumenti che gli permettano di affermare la sua autorità, riconoscere il valore dell'insegnamento, premiare gli insegnanti migliori e dissuadere gli altri dall'assumere comportamenti di disimpegno, mi sembrerebbe un programma di riforma ragionevole.



Inoltre la scuola dovrebbe garantire l'accesso a tutti, anche ai meno abbienti, dovrebbe fornire borse di studio ai più meritevoli, un severo controllo dovrebbe essere esercitato su quegli istituti che rilasciano diplomi "facili", ciò unicamente per rispondere a importantissime questioni di giustizia sociale.



E inoltre, si dovrebbe cambiare la mentalità italiana eccessivamente scuolacentrica, che vede nella scuola l'unica sede in cui imparare e nel "pezzo di carta" un salvacondotto che esonera da qualsiasi sforzo conoscitivo successivo.



Se il mondo del lavoro premierà chi fornisce prestazioni migliori, è giocoforza per gli studenti abituarsi all'idea che la formazione culturale e professionale non termina con l'esaurirsi degli studi scolastici, ma prosegue per tutta la vita in forme del tutto autonome ed estranee alla scuola. Una formazione davvero permanente.



Ecco perché è così importante insegnare ad apprendere e ad acquisire quella forma mentis che consenta agli individui di reagire positivamente ai cambiamenti costanti in cui ormai siamo tutti immersi.





La disoccupazione



Numerose circostanze concorrono e hanno concorso, a mio giudizio ma anche secondo parametri oggettivi, alla determinazione in seno alle società occidentali del problema della disoccupazione.

Per esempio, i continui cambiamenti nei modi di produzione, che oggi vedono l'avanzare della automazione e della tecnologia informatica in molti settori; la razionalizzazione della produzione con pratiche manageriali volte alla massimizzazione del profitto e alla riduzione massima dei costi; la competizione "globale" nel pianeta.



Numerose persone finiscono così per non trovare lavoro o per perderlo, perché per età o grado di istruzione non riescono ad adeguarsi alle nuove tecnologie e perché i settori "maturi" e tradizionali della produzione espellono, anziché attrarre forza lavoro.

Tutto ciò si ripercuote sulla qualità della vita di ampi strati di popolazione, che si vedono diminuire i redditi e comunque si sentono minacciati nell'agio e nella sicurezza, spesso raggiunti da poco e con fatica.

Qualcuno ritiene che, per godersi la vita, sia necessario considerarsi arrivati, mentre la nostra società occidentale alimenta invece, nell'ambito lavorativo, i sentimenti di precarietà, insicurezza, competizione, percepiti da molti come intollerabilmente angosciosi.



Tenderà a cronicizzarsi il problema della disoccupazione? Davvero la nostra esistenza sarà mortificata anche negli anni a venire da questa piaga, malgrado gli indiscutibili progressi raggiunti dalla scienza e dalla tecnica?

Io credo di no.

Anzitutto, la disoccupazione non è un problema nuovo, ma da quando la rivoluzione industriale ha cambiato il volto dell'Occidente, si ripresenta, ciclica, ad ogni significativo cambiamento di paradigma produttivo.

E' possibile che quando la situazione si assesti e i settori più "giovani" siano giunti a una maggiore definizione, molta forza lavoro venga assorbita.

Bisogna svincolarsi dall'idea che i posti di lavoro siano una quantità fissa: molto dipende dal dinamismo di individui e società, dalla loro creatività, dalla loro capacità di indurre nuovi bisogni (si spera, progressivi e non alienati). Il numero di posti di lavoro dipende quindi anche dalla buona volontà e dall'impegno di un'intera cultura.

Come dipende da una rivoluzione culturale la volontà di considerare il lavoro in modo diverso, non una condanna, ma un gioco, serio e impegnativo, ma soprattutto creativo, dove ciascuno investa la propria personalità. Non più quindi la cultura ad oltranza del posto fisso, cui accedere per diritto, senza avere magari nessun requisito, ma maggiori flessibilità e impegno, maggiore volontà di raggiungere dei risultati, di porsi al servizio di individui e comunità, in modo non "servile", ma intelligente e utile.

Soprattutto sarà necessario responsabilizzare gli individui, far sì che facciano propria l'idea di formazione continua, di cura dei propri talenti, di autonomia nello sviluppo di adeguati percorsi formativi.

Importante sarà una scolarizzazione diffusa, ma ancora più importante la disponibilità a imparare in autonomia nell'intero arco della vita, anche (e soprattutto) fuori dal normale contesto scolastico.



Fermo restando che l'eccesso di liberismo economico che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni non va bene. Se è utile eliminare le rigidità e richiedere al lavoratore un impegno responsabile, è pure vero che imprenditori, dirigenti, Stati e comunità devono offrire contropartite valide. Il cosiddetto "Welfare State" va rimodulato, ma non soppresso.

Ciascuno di noi ha bisogno di occupazioni sufficientemente attraenti, ben remunerate, di alternare periodi di lavoro a periodi di studio, di un tempo libero dilatato (d'altronde quello della progressiva diminuzione del tempo di lavoro è una costante ineluttabile delle economie occidentali), di contare di più all'interno delle organizzazioni produttive, di luoghi di lavoro salubri e stimolanti.

Sono necessari ammortizzatori sociali che impediscano lo sviluppo di sacche di povertà, offrire a tutti opportunità di formazione e di cambiamento, concedere alle persone la possibilità di estrinsecare i propri talenti.



Un capitalismo molto più simile a quello tedesco o giapponese che a quello americano. Fatto di efficienza e di impegno sì, ma anche di garanzie.





La violenza



Chi quotidianamente vive in quella vasta area che è denominata Occidente e magari si informa, legge o guarda la tv, ha la sensazione di essere circondato da un mondo estremamente violento. Una sensazione che gli esperti ritengono fallace: altre epoche hanno conosciuto, secondo gli studiosi di scienze sociali, violenze più efferate e più frequenti e mai il mondo è stato così sicuro come adesso.

Eppure, nonostante l'alto livello di civilizzazione, forse proprio a causa di questo, ci sentiamo insicuri e minacciati.



A mio avviso, le nostre aspettative di sicurezza sono aumentate, così come il desiderio di condurre una vita lunga e piacevole.

E d'altra parte la fine delle ideologie, l'indebolimento delle fedi religiose, quella che viene denominata la secolarizzazione del mondo, fanno sì che ci sentiamo piuttosto disorientati nei confronti delle norme e dei valori da abbracciare durante l'esistenza. Tutti finiamo per orientarci ad un edonismo spicciolo, ad una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento immediati, ai soldi, alla carriera, al potere.

Sentiamo che la vita è quella che viviamo adesso, qui, sulla Terra; le promesse di una giustizia divina dopo la morte, della beatitudine raggiungibile in mondi ultraterreni ci sembrano aleatorie.

"Se Dio non esiste, tutto è permesso" diceva Dostoevskij.

E perciò tendiamo a rimuovere, con un'aggressività che a volte sconfina nel crimine, ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione dei nostri desideri.

Queste sono secondo me le radici più evidenti della violenza quotidiana.

Esistono tuttavia altri motivi, più oscuri e sotterranei, ma non per questo meno potenti.

Per esempio, il fatto di vivere in società sempre più solitarie ed anonime, di essere soggetti ad un potere sempre più impersonale, che ci fa sentire di frequente inermi e impotenti. La burocratizzazione della vita, che pure è spesso necessaria per l'ordine e l'organizzazione statuale, ci disumanizza, quando non ci schiaccia (si legga la narrativa di Kafka), il potere economico (le lobby, le multinazionali, ecc.) ci rende un numerino insignificante nella grande equazione dell'economia mondiale. Basta un niente, una crisi passeggera, una ristrutturazione aziendale e di colpo siamo estromessi, reietti, perdenti.

Inoltre, secondo me, la violenza prospera su un terreno di eccessiva tolleranza maturato in alcuni ambienti religiosi e intellettuali. Per cui il criminale gode di eccessive giustificazioni, si cerca sempre un alibi alle azioni più riprovevoli, che so: i traumi infantili, l'esclusione sociale, la famiglia, la scuola, la società. Non che questi alibi siano del tutto falsi, soltanto che ciascuno di noi deve essere chiamato a rispondere, a sentirsi responsabile delle proprie azioni. Altrimenti non si spiega, come, date le medesime circostanze, c'è che delinque e chi no.

Il concetto di "responsabilità" deve tornare a far parte del vocabolario delle società occidentali. Ed anche quello di "repressione". La società, chi è preposto all'ordine pubblico, non può tollerare i comportamenti violenti, anche quelli di minore entità. Anzi si è visto che la politica della "tolleranza zero" negli Stati Uniti ha dato ottimi risultati. Le teorie "idrauliche" sul comportamento umano, forse hanno fatto il loro tempo. Comprimere, coartare la violenza non significa renderla più esplosiva e pericolosa.



Certamente la repressione non basta. Difendersi dai delinquenti non è l'unico mezzo per bonificare la società. Occorre intervenire soprattutto nella fase educativa, nella scuola, in famiglia, nelle agenzie di socializzazione in genere, affinché i comportamenti violenti e prevaricatori vengano scoraggiati, puniti, messi alla gogna. La scuola, ad esempio, ha tollerato (e tollera) il cosiddetto "bullismo". Bisogna avere il coraggio di trasmettere valori etici ed estetici diversi dalla sopraffazione dell'altro. Bisogna che la società, in genere, smetta di premiare i comportamenti violenti.

Ed è necessario, altresì, arginare e ridurre le ingiustizie e le ineguaglianze sociali, mitigare le situazioni di sofferenza e povertà.



E bisogna anche rendersi consapevoli che la violenza, essendo una delle possibilità dell'essere umano e del suo comportamento, potrà essere arginata, ma mai eliminata del tutto e che la vita di ciascuno di noi, malgrado le sempre maggiori sicurezze, continuerà ad essere una faccenda rischiosa.
?
2007-10-17 07:06:17 UTC
roby io ne ho fatto uno oggi..c'erano 3 tracce quello personale,quello sui telefilm tipo e uno sugli incontri..

ce ne sono tanti di attualità..riforma scolastika..gente ke uccide e non va in karcere..sennò parla di cosa pensi del mondo ke secondo lolti sta andando in rovina..
anonymous
2007-10-17 07:03:37 UTC
vai su google web!!!!!!!!!ciao :-))


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